Unicredit e la crisi prossima ventura

Nei giorni in cui usa commemorare i defunti, il dibattito finanziario italiano si è avviluppato sulla fantasia di un’ammucchiata bancaria: Unicredit più Intesa meno la parte italiana di Unicredit. Una trovata di cui nessuno si è voluto assumere paternità, forse per non farsi ridere dietro da mezzo mondo (analisti, investitori, concorrenti, regolatori, governi esteri, Unione europea).

Come indiziato numero uno è stato indicato Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit in quota Fondazione Crt, nel cui entourage pare sia nata l’idea allo scopo di contrastare lo spettro delle scalate estere (i barbari alle porte sono sempre un buon argomento). Palenzona ha però smentito in modo drastico: «Fantasie senza limiti, totalmente irrealizzabile, fuori da ogni senso reale, industriale, finanziario». Insomma, una cosa invereconda che sta a un’idea industriale come il bunga bunga a una cena elegante.

A questo punto poco importa chi abbia partorito l’idea: vista la rozzezza, sicuramente uno che pensa che gli investitori internazionali che hanno finanziato una buona metà dell’aumento di capitale da 7,5 miliardi di dieci mesi fa si possano trattare come è stato fatto con gli investitori di minoranza di FonSai.

Dunque, tanto rumore per nulla, come ha detto Enrico Cucchiani, a.d. di Intesa Sanpaolo? Forse no. L’ammucchiata virtuale ha fatto abbastanza baccano da coprire un fatto concreto: il 30 ottobre Unicredit ha rilasciato un profit warning.

Zitti zitti, senza fare rumore, come usa in Italia quando le notizie sono spiacevoli. Al più si telefona agli analisti e gli si fa capire che le loro attese sono troppo alte. Così facendo “si guidano le aspettative del mercato” e si spinge verso il basso il consensus, ossia la media delle previsioni degli analisti sulle principali voci di conto economico.

Poi, quando usciranno i risultati, si dirà: risultati in linea con le attese, bravi. Altrove usa che se prevedi di realizzare risultati di molto inferiori alle aspettative lo comunichi ufficialmente: chiamasi profit warning, allarme sugli utili. E solo allora gli analisti di mercato riformulano le loro stime e le quotazioni scendono, senza che sia necessario gridare al-lupo-al-lupo contro gli speculatori cattivi.

Proviamo dunque a colmare la lacuna. Il 3 maggio 2012 Unicredit ha pubblicato il consensus calcolato sulle stime di 24 analisti finanziari: ricavi per 26.313 milioni, risultato operativo netto per 5.014 milioni, utile lordo 4.413 milioni, utile netto 2.041 milioni. Il 30 ottobre arriva invece il consensus aggiornato: ricavi per 25.527 milioni, risultato operativo netto 3.550 milioni, utile lordo 3.361 milioni, utile netto 1.347 milioni. Si tratta di un ritracciamento al ribasso che sfiora il 30% sul risultato operativo netto e arriva al 34% sull’utile netto.

È implicito che i dati della terza trimestrale, in uscita il 14 novembre, e dell’ultimo trimestre saranno molto magri (nel primo semestre sono stati già realizzati utili per 1,1 miliardi). Per il 2013 la revisione al ribasso dei risultati attesi di Unicredit è ancora più netta: -5% sui ricavi, meno 31% sul risultato operativo netto (da 5.938 a 4.081 milioni), meno 43% sull’utile netto (da 2,78 a 1,58 miliardi). Il profit warning è concreto ma silenzioso, la “bunga bunga bank” virtuale ma rumorosa. Hai voglia a gridare contro gli scalatori.

Di barbari non ce ne sono più, anche se quella gente era una soluzione per chiudere gli occhi sulla realtà: se va bene il dividendo sarà intorno a 6 centesimi per azione contro gli 11 cent previsti in media a maggio. Perciò, come ha detto l’amministratore delegato Federico Ghizzoni, occorre «andare avanti per la nostra strada». Già, ma dove porta la strada di Unicredit?

 

Articolo ripreso da linkiesta.it