Svizzera non solo paradiso fiscale

Un lungo articolo sulla Svizzera, preso da Linkiesta. Molto dettagliato e forse anche un po’ troppo favorevole nei confronti del nostro vicino elvetico. La parte sulle scuole professionali non ci convince particolarmente, anche se si puo’ apprezzare l’approccio molto pragmatico. Come al solito tutto da leggere.

La Svizzera funziona. Basta salire sui suoi treni per capirlo: veloci, puntuali e comodi. Forse è poco elegante scriverlo, ma perfino le toilette dei convogli, in scintillante acciaio, sbalordiscono un viaggiatore italiano: sono pulite, profumate e funzionanti. Il sogno di ogni pendolare. «Noi svizzeri siamo fatti così. Ordinati, rispettosi – racconta a Linkiesta un ticinese doc che preferisce parlare a microfoni spenti – Quando vedo, di rado in realtà, qualcuno attraversare con il rosso, o buttare una carta a terra, ho quasi l’istinto di sgridarlo. Perché noi svizzeri a certe cose ci teniamo.» Un ritornello analogo lo si sente a Zurigo, o a Lucerna: a differenza di altri Paesi, in Svizzera le regole si rispettano, e si fanno rispettare.

Paola Garieri ha 27 anni, è italiana e vive con il suo ragazzo a Losanna, nella Svizzera sudoccidentale. Ha un appartamento in affitto in uno dei quartieri più belli della città, a quindici minuti dal centro storico e a cinque dalle rive del lago di Ginevra (che in questo periodo dell’anno sono affollate come a Riccione). Dopo la laurea in giurisprudenza in Italia, e un master in diritto economico elvetico, la Garieri ha lavorato per un breve periodo in un’importante azienda di revisione e consulenza fiscale/legale, la PwC, e ora è stata assunta dal Dipartimento federale delle finanze a Berna. «Qui la partecipazione diretta funziona, e non è un costo: si vota per posta, gli scrutinatori non percepiscono un soldo, non si mobilitano le forze dell’ordine e non si chiudono le scuole. E i referendum non sono solo abrogativi, ma anche propositivi – racconta la giovane giurista –. Ed è vero, c’è molto rispetto delle regole: perché solo il rispetto può portare a una convivenza civile, corretta e piacevole.»

A osservare la legge, in Svizzera, non sono solo i comuni cittadini, ma anche gli attori economici. Il principio giuridico “pacta sunt servanda” (i patti vanno rispettati) sembra essere preso sul serio. Lo conferma a Linkiesta il professor Rolf H. Weber, docente di diritto privato, economico ed europeo dell’Università di Zurigo. «In Svizzera l’adempimento contrattuale è molto migliore che in Italia» dichiara il cattedratico, precisando di saperlo per esperienza personale. E il sistema giudiziario è relativamente efficiente, anche se «la durata delle liti non è molto breve.»

Certo, è più facile rispettare le leggi quando sono poche e semplici. «In Svizzera c’è un diritto privato liberale – riconosce Weber –. A causa del numero relativamente ristretto di norme obbligatorie, le ditte private hanno una grande libertà di agire, il che serve allo sviluppo economico.»

Non a caso nell’indice di libertà economica elaborato dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, la Svizzera è al quinto posto nel mondo, ed è prima in Europa. Merito (anche) dei suoi funzionari incorruttibili, di un sistema giudiziario indipendente, del già citato rispetto dei contratti nonché di un eccellente regime di tutela della proprietà intellettuale (non potrebbe essere altrimenti, dato che a Ginevra ha sede la Wipo, l’organizzazione mondiale competente in materia).

“La proprietà è garantita”. “La libertà economica è garantita”. Così iniziano gli articoli 26 e 27 della Costituzione federale. Una carta giovane, anzi giovanissima, ma con radici antiche.

Come spiega a Linkiesta Luca Fasani, responsabile dell’informazione economica della Radiotelevisione Svizzera Italiana (RSI), la Confederazione «è figlia di quella che forse è l’unica rivoluzione del 1848 che è andata in porto. Con quella rivoluzione arrivò al potere il Partito liberale radicale, che è al governo ancora oggi. Certo, non sono più sette consiglieri su sette [il Consiglio federale è l’organo di governo della Confederazione], ora sono solo due, ma sono lì da centocinquant’anni.» E aggiunge: «Altrettanto importante, per noi, è non dare troppo potere al centro, a Berna. Se si prende in mano la Costituzione federale, nel primo articolo si legge che a fare la Svizzera sono il popolo svizzero e i cantoni.»

Uno Stato federale. Liberale. Leggero. Quasi timido. Con molti pesi e contrappesi. E che crede fermamente nell’iniziativa economica dei privati. Uno Stato borghese, insomma, all’antica, in un’Europa segnata dal declino della classe media. Declino che in Svizzera, invece, sembra meno accentuato.

Una passeggiata lungo la Bahnhofstrasse di Zurigo, tra raffinate boutique, belle signore ingioiellate e negozi à la page (l’unico elemento fuori posto è lo scrivente), elimina molti dubbi. E se ancora non si è convinti, basta fare un salto in uno dei tanti punti-vendita della locale catena di supermercati Migros: a differenza dei supermercati italiani, svuotati dalla crisi, la Migros di Lugano città è affollata da famigliole, anziani, impiegati in giacca e cravatta.

Nel 2008 il reddito pro capite elvetico, da tempo uno dei più alti del mondo, ha superato i 64mila dollari. Più degli Emirati Arabi Uniti, o del Kuwait. Solo che la Confederazione non ha né petrolio né gas: al massimo può vantare qualche miniera di sale, per esempio nel cantone sudoccidentale di Vaud.

In base alle stime di aprile del Fmi, quest’anno l’economia rossocrociata dovrebbe crescere di quasi il 2,4%. Non è una cifra stratosferica, e probabilmente dovrà essere ritoccata al ribasso, ma a paragone del misero 1% (o meno) nostrano, o dell’1,6% (o meno) francese, è un risultato dignitoso, per il quale Giulio Tremonti venderebbe un braccio.

A differenza di Italia e Francia, poi, i conti della Confederazione sono in ordine. Non a caso un suo titolo di stato a dieci anni rende si è no un punto percentuale, contro i due di un bund tedesco. E il franco svizzero, che alcuni esperti considerano una specie di nuovo (mini)marco, non è mai stato così forte, come ha illustrato poco tempo fa il segretario generale Assiom-Forex Claudia Segre.

«L’economia svizzera riesce quasi sempre a reggere meglio durante i momenti di crisi, di recessione. – spiega a Linkiesta la dottoressa Amalia Mirante. Giovane economista ticinese, la incontriamo nel suo ufficio presso l’Università della Svizzera Italiana (USI), a Lugano – L’economia regge anche perché alla base ci sono finanze pubbliche molto sane. Qui in Svizzera c’è un atteggiamento assai rigoroso verso il debito pubblico.» E infatti in ambito fiscale la Confederazione è un modello: per chi sogna, a torto o a ragione, meno Stato e meno tasse. «Il carico fiscale svizzero è decisamente competitivo, anzi ultracompetitivo rispetto ad altri Paesi. – conferma la ricercatrice – Avendo una politica di bilancio rigorosa, e una spesa sociale più contenuta, la Svizzera si può permettere di chiedere meno ai propri contribuenti.»

Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2010 le aziende svizzere hanno versato al fisco il 30,1% dei loro profitti commerciali, contro il 68,6% di quelle italiane, il 65,8% delle francesi e il 48,2% delle tedesche. Naturalmente un carico fiscale così basso non può che allettare le imprese straniere. E infatti cresce, complice la crisi e una concorrenza globale spietata, il numero di imprenditori italiani che scelgono di spostarsi in Svizzera. Per esempio nel vicino Canton Ticino, storica metà di elezione per gli italiani in fuga (dagli austriaci, come fu per Carlo Cattaneo; o dal fisco italiano, in tempi meno remoti).

Girando per Lugano o Zurigo si è indotti a credere che la Confederazione sia solo un’opulenta piazza finanziaria nel cuore d’Europa: a ogni passo l’occhio cade sullo stemma di una banca, sull’insegna di un’assicurazione, sullo stendardo di questo o quel colosso della finanza. Ma non è così. In realtà la Svizzera è anche un Paese industriale, con un secondario che vale circa il 28% del Pil. Meno della Germania (30%). Ma non dell’Italia (27%).

Certo, il settore bancario continua a pesare. E molto. Come spiega il professor Sergio Rossi, ordinario di macroeconomia e politica monetaria presso l’Università di Friburgo, «il settore bancario è tradizionalmente un pilastro dell’economia svizzera, sia per il suo contributo al Pil (6,7% nel 2010), sia per l’occupazione (3,2% dei posti di lavoro nel 2010, secondo i dati pubblicati nel luglio 2011 dall’Associazione svizzera dei banchieri). Si tratta di un settore importante per le entrate fiscali della Confederazione e dei Cantoni in cui sono attivi un numero notevole di istituti bancari.»

Però pensare, come si fa a sud delle Alpi, che il Paese sia tutto banche e finanziarie è sbagliato. «La percezione della Svizzera che c’è in Italia non è realistica. – conferma a Linkiesta Fabrizio Macrì, responsabile marketing della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera – Viene vista come un piccolo Paese alpino con le banche, la cioccolata buona… Non è percepito il suo enorme potenziale industriale. Eppure siamo il loro secondo partner commerciale, dopo la Germania. Da noi importano quanto importano i britannici. Tra il gennaio e il novembre del 2010 l’export italiano verso la Svizzera è cresciuto di 2,2 miliardi, contro i 2,4 miliardi di Cina e India. Io, scherzando, nelle mie presentazioni definisco la Svizzera la “Tigre delle Alpi”.»

Laureato in scienze politiche all’Università di Torino, 36 anni, romano, Macrì ha fatto la gavetta in Germania, assistendo le piccole e medie aziende italiane nei loro progetti di internazionalizzazione. Gli sono molto familiari le necessità degli imprenditori italiani all’estero.

«Nonostante sia poco seguito dai media, quello svizzero è un mercato che le imprese conoscono bene, in cui lavorano intensamente sia aziende del nord che del sud. È un mercato con un grandissimo potenziale, perché i margini di prezzo in Svizzera sono più alti che in altri mercati, dato il maggior potere d’acquisto e i più alti prezzi di vendita al consumatore. – dice – È un’economia dinamica, che si è sempre mantenuta stabile, con fondamentali solidi.»

Pur non essendo certo il paradiso, per un imprenditore italiano la Svizzera è distante anni-luce dal purgatorio nostrano. Secondo i dati dell’Economist, l’ambiente imprenditoriale elvetico è il migliore al mondo, dopo quello della città-stato Singapore. E nell’ultimo indice di competitività globale, elaborato dal World Economic Forum, la Confederazione è al primo posto, superando la Svezia e Singapore.

Sul sito dell’Osec, ente che promuove l’economia elvetica (e sostiene le sue imprese all’estero), sono elencati i vantaggi per chi investe in Svizzera: dalle condizioni-quadro competitive alla posizione strategica favorevole, dalle infrastrutture di prim’ordine a un mercato del lavoro flessibile, da una moderata imposizione fiscale a un mercato dei capitali efficiente ecc… I dati, e le testimonianze raccolte da Linkiesta, sembrano confermare tutto.

«Sì, il modello economico svizzero è un modello competitivo: grande qualità dei servizi, certezza della legge, e un rapporto felice con la pubblica amministrazione, che è molto snella. I trasporti su ferro sono efficienti (la Svizzera si gira come un’unica grande area metropolitana), c’è una fiscalità vantaggiosa, una diffusa conoscenza delle lingue e una forte specializzazione del personale. – dichiara Macrì – E poi si tratta di un Paese aperto. Le esportazioni raggiungono il 56% del Pil, le importazioni il 47%. Se facciamo un confronto, i dati sono 47% e 41% in Germania, e circa 30% e 30% in Italia.»

La bilancia dei pagamenti elvetici è in attivo. Un attivo cospicuo, che nel 2008 ha superato quello di grossi esportatori di idrocarburi come il Kazakistan o l’Angola. Come dice giustamente Luca Fasani, «la Svizzera è una piccola Cina. Una piccola Cina che punta sull’export di prodotti ad alto valore aggiunto.» Infatti a differenza della Cina la Svizzera non esporta magliette, telefoni o macchinari per l’ufficio, ma sofisticati prodotti chimici e farmaceutici, macchinari di ultima generazione, orologi, gioielli… Alcuni dei brand del settore del lusso più noti al mondo sono elvetici. E hanno sede nella Confederazione, oltre a importanti gruppi finanziari come Credit Suisse, UBS e Zurich, colossi quali Nestlé (alimentari), Novartis e Roche (farmaceutici) ecc… Non è poco per un Paese di neanche otto milioni di abitanti, montagnoso e senza sbocchi sul mare.

E il bello è che né la Confederazione né i cantoni sembrano volersi sedere sugli allori. A Berna come a Ginevra, a Losanna come a Zurigo, c’è la dolorosa consapevolezza che il Paese non può fermarsi, perché la concorrenza straniera è agguerrita. Questo spiega perché si faccia di tutto per attirare investimenti e talenti dall’estero.

Lorenzo Bessone è torinese. Laureato in economia, è stato per quattro anni alla Ernst & Young. Oggi lavora per la GGBa, «un acronimo, sta per Greater Geneva Berne area. – spiega, tradendo un lieve accento piemontese – Si tratta della parte più occidentale della Svizzera. Ne fanno parte sei cantoni (Berna, Friburgo, Neuchâtel, Vaud, Ginevra e il Vallese), che si sono uniti per portare avanti una politica di attrazione degli investimenti e delle imprese, in modo da portare ricchezza e lavoro sul territorio locale. Siamo un’agenzia di sviluppo economico che di fatto fa marketing territoriale. Lavoriamo a livello internazionale attraverso dei delegati: io sono il delegato per il mercato italiano. Ci sono delegati come me che fanno questo lavoro in Francia, Germania, Usa, Brasile, Russia, India e Cina.»

Insomma, il mestiere di Bessone è convincere gli imprenditori italiani a investire in questa ricca regione industriale di quasi tre milioni di abitanti. Investire, dice Bessone, non delocalizzare: «Noi non chiediamo all’imprenditore italiano di chiudere la sua ditta e venire in Svizzera. Non vogliamo incrinare le relazioni italosvizzere, ma far sviluppare, grazie alla leva competitiva elvetica, il business delle aziende internazionali, incluse quelle italiane.» Dalla sua la GGBa ha molti punti di forza, inclusi centri di ricerca rinomati, come il Cern di Ginevra, il Politecnico di Losanna (Epfl), l’Adolphe Merkle Institute (Ami) di Friburgo. Non a caso lo svizzero Daniel Borel, cofondatore di Logitech insieme agli italiani Pierluigi Zappacosta e Giacomo Marini, ritiene che la regione abbia il potenziale per diventare “la prossima Silicon Valley”.

«Qui un imprenditore può veramente fare impresa. – assicura Bessone – La burocrazia è pressoché nulla, e si può contare sul nostro aiuto: la GGBa offre un’assistenza gratuita per poter avviare rapidamente, e concretamente, l’attività.» Se Ginevra, Berna e Losanna si danno da fare, il resto del Paese non sta certo a guardare. Zurigo, capitale economica della Confederazione, è il perno della Gza. «Gza sta per Greater Zurich Area, e indica l’area economica della regione metropolitana intorno alla città di Zurigo. – spiega a Linkiesta Sonja Wollkopf Walt, direttrice amministrativa dell’agenzia di sviluppo economico della Gza – Si tratta della principale area economica svizzera, e di una delle regioni economiche più forti e attraenti di tutto il mondo. Uno spazio vitale per tre milioni di persone, dove lavorano più di 150.000 imprese, fra l’altro in settori specializzati delle tecnologie ad alta precisione.»

Tra le attrazioni della regione, sede di corporation globali (nonché di 85 delle cento più grandi società elvetiche), ci sono eccellenti infrastrutture, un regime fiscale conveniente, ottimi istituti scientifici (come l’IBM Research Laboratory a Rüschlikon, il centro di ricerca europeo di Google o il Microsoft Swiss Development Center); ma anche una qualità della vita e un life-style d’eccellenza. «Nelle diverse indagini (Mercer, IMD, Monocle e altri) la qualità della vita a Zurigo e nella GZA risulta regolarmente ai primissimi posti. – sottolinea la Wollkopf Walt – I giovani di talento possono trovare nella GZA un gran numero di imprese internazionali che offrono allettanti opportunità di carriera. La città e la regione offrono interessanti possibilità di formazione, grazie a varie università, al Politecnico a e scuole universitarie professionali. Anche per questi motivi la vita notturna e culturale, qui, è particolarmente vivace.» Macrì, che a Zurigo ci vive ormai da anni, conferma tutto: «Qui mi trovo benissimo. È una città che funziona come un orologio, e per quanto riguarda la qualità dei servizi non ho nulla da ridire. C’è un grande senso civico, e benché ci siano moltissimi milionari, tutti sono trattati con grande rispetto. Non sembra una capitale della finanza, concentrata solo sul denaro: è una metropoli ridente, con molto verde. Quando c’è il sole, si vedono anche le montagne.»

Tutti concordano su una cosa: la manodopera svizzera è, generalmente, molto qualificata. E se in Scandinavia l’inglese è d’obbligo, nella Confederazione non è raro che un cittadino parli alla perfezione due o tre delle quattro lingue nazionali (tedesco, francese, italiano e romancio). Ciò aiuta a capire perché i salari elvetici sono tra i più alti d’Europa.

«Il capitale umano svizzero è predisposto al mondo dell’impresa. – riconosce Macrì – Una cosa che colpisce è l’estrema specializzazione della manodopera. Mansioni che da noi non richiederebbero una specifica preparazione, qui sono oggetto di scuole e corsi specialistici.»

Oltre a essere qualificata, la manodopera elvetica è anche assai disciplinata. I tassi di assenteismo e sciopero sono bassi. D’altro canto l’articolo 28 della Costituzione federale parla chiaro: la libertà sindacale è assicurata, ma “i conflitti vanno per quanto possibile composti in via negoziale o conciliativa”, “lo sciopero e la serrata sono leciti soltanto se si riferiscono ai rapporti di lavoro” e “la legge può vietare lo sciopero a determinate categorie di persone.”

Imprenditori del terziario sentiti da Linkiesta giurano addirittura che, in Svizzera, i sindacati non contano nulla. Probabilmente esagerano. Vasco Pedrina, membro del comitato esecutivo della potente Unione Sindacale Svizzera (SGB) spiega: «Qui il livello di sindacalizzazione è abbastanza nella media europea. Spiegare i punti di forza del sindacato svizzero rispetto ad altri Paesi europei non è così semplice. Per esempio la capacità di mobilitazione dei sindacati italiani è più forte della nostra, però l’altra faccia della medaglia è che nei settori dove siamo presenti noi sindacati, abbiamo ottenuto dei contratti collettivi tra i migliori al mondo. Il nostro sistema è più solido di quello italiano. E grazie alla pratica della democrazia diretta abbiamo una forte influenza anche politica.»

Come in Nord Europa, anche in Svizzera la parola magica sembra essere concertazione. Pedrina tiene a precisare: «Non è che qua in Svizzera ci sia solo pace sociale. E poi il nostro sistema di contestazione è attraverso il sistema politico. Quando vengono varate dai politici leggi antisociali, abbiamo la possibilità di fare dei referendum e di imporre i voti popolari.» Quanto all’articolo 28 della Costituzione, «questo articolo corrisponde alla tradizione svizzera. Noi abbiamo un sistema politico di concordanza. Il governo è un governo di coalizione, che prende tutte le forze che contano. E questo è dovuto al fatto che abbiamo un sistema di democrazia diretta: è meglio integrare le varie forze politiche per evitare che queste facciano un referendum e sabotino con i voti popolari quello che si decide a Berna. Parallelamente, c’è concordanza a livello sociale. Un sistema di relazioni molto basato sul dialogo; qui per molti anni non ci sono stati tanti scioperi. Ora però la situazione si sta irrigidendo, e si ricomincia a scioperare.»

Pedrina si sofferma sul sistema scolastico svizzero. Che è un po’ diverso da quello italiano. Molti studenti, raggiunti i 16 anni di età, si iscrivono a una scuola professionale di base: ma a differenza delle omologhe italiane, in quelle elvetiche si trascorrono uno o al massimo due giorni in classe e il resto in azienda, a fare apprendistato. «In questo modo gli studenti imparano sia la pratica sia la teoria. – dice Pedrina – Una delle chiavi del successo di questo Paese è questo: una formazione mista.»

Gli economisti sembrano concordare. Se in Svizzera la disoccupazione è sotto il 4% (dato inizio 2010), una delle principali ragioni è proprio la buona formazione scolastica che, come spiega il professor Rossi dell’Università di Friburgo, «è appaiata da una formazione professionale, vale a dire che i giovani dopo la scolarizzazione obbligatoria possono seguire una formazione che abbina dei cicli di lezioni alla pratica in aziende, che inseriscono così i giovani nell’attività professionale, formandoli nel ramo in cui possono specializzarsi anche grazie a dei programmi di formazione continua offerti dallo Stato o dai privati in un crescente numero di attività industriali, commerciali, o sociosanitarie.»

Il culto svizzero per la specializzazione tecnica non si ferma però alle scuole secondarie. Alle università e ai due politecnici federali (l’Epfl di Losanna e l’Ethz di Zurigo) si affiancano degli istituti sconosciuti in Italia: le Scuole universitarie professionali (Sup). Sempre più popolari, le Sup offrono una preparazione teorica superiore, combinata con lunghi periodi di stage. D’altro canto gli stessi atenei elvetici sono molto orientati al mondo del business e dell’impresa. È il caso dell’Università della Svizzera Italiana (Usi) e della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (Supsi) che, unendo le forze, hanno promosso la costituzione del Centro Promozione Start-up, un vero e proprio “incubatore d’impresa”.

La mentre dietro il centro è Roberto Poretti, economista ticinese di lungo corso, pacato ma tenace, con esperienza nel pubblico e nel privato (per diversi anni è stato Ceo di un’importante società di telecomunicazioni attiva nel Paese). «Noi ci rivolgiamo principalmente a svizzeri e stranieri con idee innovative, e in particolare a coloro che hanno studiato in Svizzera. Siamo aperti a tutti però. – spiega – Una delle nostre start-up è stata premiata come una delle migliori della Svizzera. Si tratta della Vissee, un progetto che è nato da ricerche sul moscerino della frutta, la drosofila, e ha portato al brevetto di sensori che misurano la velocità degli oggetti su cui vengono installati. Per noi è stato un grande successo, perché il laureato, ticinese, che ha condotto la ricerca e sviluppato l’idea all’Ethz di Zurigo, proprio grazie all’esistenza e ai servizi forniti dal nostro centro ha deciso di tornare in Ticino, per iniziare a fare impresa qui, e oggi ci sono grandi aziende, soprattutto americane, interessate alle tecnologie sviluppate da Vissee.»

Ojas Joshi è italiano, ha 27 anni e vive a Losanna con Paola Garieri. È nato a Mumbai, ma si è laureato al Politecnico di Torino. Oggi sta conseguendo un PhD in matematica applicata all’ingegneria spaziale presso l’Epfl. «Qui mi trovo molto bene. L’Epfl è bellissimo, viene proprio voglia di studiare. E Losanna è una città splendida, accogliente, viva, piena di studenti. Il lago di Ginevra, poi, le dà quel qualcosa in più. – spiega. Quando gli chiediamo quale sia la principale differenza tra le università italiane e quelle svizzere, non ha dubbi – I soldi. Negli ultimi tre anni hanno ampliato il campus, e incentivato moltissimo le start-up. Qui all’Epfl c’è un parco scientifico grandissimo, e ci si può creare la propria attività con il sostegno del Politecnico, e indirettamente della Confederazione.» Confederazione che, in percentuale al Pil, investe in ricerca e sviluppo più degli Stati Uniti. E che nell’indice di capacità tecnologica del 2009 è al terzo posto, preceduta solo da Paesi Bassi e Svezia.

Joshi non si è mai sentito discriminato a Losanna, né a causa della sua nazionalità italiana né a causa del colore della sua pelle. Ammette però che è preoccupato dall’ascesa del populismo nel resto del Paese. «Io sono arrivato qui in Svizzera nel febbraio del 2008, con l’Erasmus, ed è stato un crescendo di xenofobia.» In effetti tra le tante sfide a breve e medio termine che l’economia svizzera deve affrontare (ad es. il superfranco che frena l’export, o la revisione degli accordi contro la doppia imposizione fiscale), quella del populismo anti-europeo e anti-immigrati è forse la principale.

Hanno sollevato molto scalpore internazionale l’approvazione delle iniziative popolari sul divieto di edificare nuovi minareti (art. 72 della Costituzione federale), e sull’espulsione automatica degli stranieri colpevoli di gravi reati (art. 121). E oggi si stanno raccogliendo firme a sostegno di un’iniziativa popolare per lo “stop alla immigrazione di massa”.

Cittadini elvetici sentiti da Linkiesta, e che preferiscono non rendere nota la loro identità, riconoscono che ultimamente «il popolo vota molto di pancia», ma sottolineano anche come in Svizzera «oltre il 20% dei residenti sono stranieri. Uno su tre è italiano, francese o tedesco: gente che spesso ha fatto l’università, mica dei poveretti. Quanti sono gli immigrati in Italia ? Meno del 10% no ?» Ammettono che la Svizzera si sta spostando sempre più a destra (l’Udc, nazionalista e ultraconservatore, è il primo partito elvetico), tuttavia si affrettano a sottolineare come il trend sia europeo, per non dire occidentale.

Trend o no, uno dei punti di forza della Svizzera è proprio la lunga tradizione di apertura e accoglienza. La stessa industria degli orologi, simbolo della Confederazione, deve una parte importante del suo sviluppo a degli immigrati: gli artigiani ugonotti scacciati dalla Francia assolutista del Re Sole, che si insediarono nei cantoni sudoccidentali agli inizi del Diciottesimo secolo.

Ancora oggi la capacità elvetica di attrarre talenti dall’estero è straordinaria, paragonabile solo a quella delle nazioni anglosassoni e scandinave. La cosa non guasta, se si vuole rimanere una potenza tecnoscientifica (la Confederazione ha vinto, in chimica fisica e medicina, 16 Nobel, contro i 7 dell’Italia). E scienza e tecnologia sono piuttosto utili, quando si è esportatori di prodotti ad alto valore aggiunto, in un mondo competitivo e globalizzato.

Ma se la Svizzera si chiudesse a riccio, trincerandosi dietro una muraglia di sciovinismo, continuerebbe a essere la meta di alcune delle migliori giovani menti d’Europa e del mondo? E un broker brasiliano, o un imprenditore pakistano, accetterebbero di trasferirsi in un Paese dove lo straniero è accolto con diffidenza e sospetto? In fondo uno dei segreti di posti come la Silicon Valley e New York è proprio il loro essere un melting pot di culture, razze, lingue e religioni… Se la Svizzera diventasse meno tollerante e aperta, non tradirebbe solo la sua storia; danneggerebbe proprio quell’economia efficiente e prospera che tutti, a parole, dicono di voler difendere.

Aritcolo tratto da Linkiesta.it