L’investimento pubblico nelle startup italiane riuscirà ad essere efficiente?

Lo stato nelle startup? Una contraddizione in termini. Quelle che preferiscono crescere a debito piuttosto che cercare investitori poi fatico anche a considerarle startup. Massimiliano Magrini è cofondatore di United Ventures, il principale fondo di venture capital italiano.

Ha in portafoglio 13 startup ed ha appena annunciato il closing di altri due investimenti in altrettante startup. A ottobre 2014 United Venture aveva annunciato alla chiusura del fondo di aver raccolto oltre 60 milioni di euro da investitori, superando le attese (erano previsto un obbiettivo di 50 milioni). Oggi sono 65.

Laureato a Bologna in scienze politiche, ha lavorato come managing director in Altavista e nel 2002 ha contribuito al lancio di Google di cui è stato country manager. Nel 2009 fonda Annapurna Ventures, fondo italiano focalizzato sulle tecnologie digitali. United Ventures ha investito in 12 società che operano tra Europa e Nord America: MoneyFarm, Cloud4WI, Halldis, AppsBuilder, 20Lines, Marinanow, Lovethesign, Badseed, MusiXmatch e BuzzMyVideos. Facelt e Kuldat le nuove arrivate. Al Tech Insight 2015 alla Triennale di Milano ha chiamato a raccolta i principali attori europei del mercato dei venture e della ricerca per tracciare «linee utili a capire come andrà il futuro».

Il 2015 era partito quasi con l’obbligo di essere l’anno della svolta per le startup italiane, e invece… 

Non è mica facile, ci vuole tempo e in Italia siamo ancora all’inizio. Il venture market non è democratico, non è qualcosa che tutti possono fare, ma è un processo di concentrazione delle risorse e degli attori intorno a dei processi seri. Noi siamo tra quelli. Bisogna saper raggiungere la critical mass, ed è quello che abbiamo dimostrato quando abbiamo annunciato i 65 milioni raggiunti dal nostro final closing. In Italia piano piano ci stiamo riuscendo. Abbiamo portato a Milano il meglio dell’hitech e dei venture europei. E l’attenzione verso l’Italia credimi sta cambiando, siamo molto più considerati come paese in cui investire anche in startup.

Quindi che l’Italia non sia più a rischio come sistema e non sentiamo quasi più parlare di spread e di default è un bene anche per le startup. 

E certo, è tutto collegato, per lo meno è un bene per le startup che vogliono crescere e attrarre investimenti anche da player internazionali, che non hanno più paura ad investire. Dell’Italia piacciono un sacco di cose, le idee, il capitale umano. Ora sono più incentivati a investire perché c’è meno rischio.

Altre 5 nuove aziende in portfolio nel 2015, un paio le avete annunciate oggi. 

Facelt e Kuldat sono le nuove arrivate nella famiglia United Venture, ma abbiamo annunciato solo la prima per ora, una piattaforma di gaming con sede a Londra che ha già chiuso un primo round di investimento da 2 milioni di dollari all’inizio dell’anno in un «pre series A». Altri round di investimento li chiuderemo nei prossimi mesi.

Qualche anticipazione?

Non i nomi ma posso dire che faremo i primi veri round B, saranno compresi tra i 5 e i 20 milioni.

Invitalia ha creato un fondo di venture da 50 milioni, servirà a far fare il salto di qualità al mercato? 

Cosa vuoi che dica. Che ci siano più soldi sulle startup sono più contento. Ma sulle potenzialità effettive che possa essere una cosa buona per il mercato dei venture ho seri dubbi. Ci sono aspetti ancora poco chiari, con chi saranno fatti questi investimenti, su quali startup, e cosa succederà dopo che questi investimenti sono stati fatti. Io credo che in primo luogo bisogna capire di cosa parliamo quando parliamo di startup. Se questi soldi saranno investiti in quelle che hanno partecipato al bando Smart&Start c’è poco da gioire considerato che molte di queste difficilmente possano essere considerate startup con un potenziale davvero disruptive. E poi, da ultimo, se hai una startup e vuoi farla crescere forse il ministero non è il posto migliore.

Cosa non la convince dell’operazione? 

Per me è una contraddizione in termini. Un incaricato o un funzionario del ministero nel board delle startup, lo immagini? Non riesco a capire a cosa possano servire, come può aiutare l’azienda nelle strategie di crescita. Sarebbe stato più logico creare un fondo dei fondi come avviene nelle nazioni che dovremmo davvero prendere a modello.

E’ quello che ha promesso il Fondo italiano con Cassa depositi e prestiti.

Esatto, quella è la strategia giusta. Cdp ha interpretato al meglio il ruolo che dovrebbe avere il pubblico per favorire la nascita di aziende innovative. Così muove gli investimenti senza interferire con le scelte aziendali e lasciando le decisioni a chi di queste cose ci capisce davvero. Non ci si improvvisa venture da un momento all’altro, così si rischiano di soddisfare logiche localistiche, clientelari. E non serve proprio a nessuno.

Qualche settimana fa su StartupItalia! abbiamo incrociato i dati degli investimenti dei venture in startup nel 2014 con i soldi che le startup hanno chiesto allo Stato per crescere tra Smart&Start e Fondo di garanzia: il risultato è che numericamente molte preferiscono crescere indebitandosi. Molte, pare, perché restie a cedere quote. 

E’ una questione culturale. Io una startup tech che si indebita per crescere non la capisco. Non ha senso, è un’altra contraddizione in termini. Fatico a considerarla una startup e forse anche qui in Italia dobbiamo cominciare a ragionare bene su cosa sia startup e cosa no. Così resteranno piccole realtà che non potranno mai crescere, una riproposizione delle piccole aziende a conduzione familiare tipiche del tessuto produttivo italiano. Fare startup è un’altra cosa. Le startup che sono con noi non hanno mica paura di cedere quote, il ruolo del venture è supportare le aziende a crescere, non è solo uno che ti mette i soldi. E’ una questione di fiducia reciproca e di obbiettivi condivisi da raggiungere insieme. Chi si indebita non capisce che così non si cresce.

 

Articolo di A. Rocola – ripreso da startupitalia.eu