L’Italia rimane capace di esportare all’estero ma il mercato interno e’ distrutto

Un terzetto sperimentato composto da Marco Fortis, Ermete Realacci e Ferruccio Dardanello ha provato oggi a risollevare il morale degli italiani pubblicando e presentando a Roma le ‘10 verità sulla competitività italiana‘. Non avranno lo stesso effetto sull’umanità delle tavole dei 10 comandamenti, ma almeno sono un tentativo di farci vedere il bicchiere mezzo pieno.

La tesi sostenuta dalla Fondazione Symbola, dalla Fondazione Edison e da Unioncamere è che il nostro sistema manifatturiero ha tenuto benissimo negli anni di crisi sui mercati internazionali e che i veri problemi del Paese sono da cercare nel crollo del mercato domestico, distrutto da un patto fiscale europeo scellerato. Fortis non è nuovo a questa difesa appassionata del manifatturiero esportatore, Realacci e Dardanello erano stati tra i firmatari del manifesto ‘Oltre la crisi‘ pubblicato nel novembre 2013 e sostanzialmente ignorato dalla politica che nell’improbabile mix di proposte per una politica industriale a sostegno di innovazione, ICT, turismo, made in Italy, cultura e agricoltura si deve essere persa.

Lodevole comunque il tentativo di mettere in luce alcuni punti di forza del nostro sistema d’impresa:

– siamo tra i soli cinque paesi al mondo (con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud) ad avere un surplus commerciale manifatturiero con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari.
– nonostante una vulgata che ha tanti e autorevoli sostenitori, l’Italia non è una delle vittime della globalizzazione, in competizione perdente coi paesi emergenti. Siamo, invece, tra i paesi che hanno sofferto meno l’irruzione della Cina e degli altri Brics nel mercato mondiale, mantenendo il 71% delle quote di export rispetto al 1999: come gli Usa, mentre il Giappone le ha viste ridotte al 67%, la Francia al 61%, il Regno Unito al 55%

Se il nostro Pil non cresce, allora, non è certo perché le nostre imprese hanno mancato in massa l’appuntamento con la competitività e la globalizzazione. Piuttosto è il crollo del mercato interno– la cui responsabilità va cercata in Italia e in Europa anche in una interpretazione dogmatica dell’austerity – a zavorrare il Pil: il fatturato interno dell’industria manifatturiera italiana ha perso il 15,9% rispetto al 2008, contro lo 0,3% della Germania e a fronte di una crescita del 4,6% in Francia. Mentre sui mercati esteri per dinamica del fatturato industriale abbiamo addirittura battuto la Germania: +16,5% contro +11,6%.

Non c’è motivo di confutare a una a una le 10 verità, tantomeno di sottostimare la forza di alcuni nostri settori manifatturieri che all’estero continuano a prendere commesse e battere anche i rivali tedeschi. Semmai si può essere perplessi su questa insistenza nel mettere nello stesso vaso argomenti e settori così diversi nelle dinamiche tra loro. L”enfasi sulla green economy è il prezzo da pagare per la presenza di Symbola, ma purtroppo non risulta essere indiscutibilmente un settore di eccellenza italiana.

Ancora più deboli sembrano gli argomenti usati per sostenere la forza del turismo, un settore in cui abbiamo de tempo perso il treno e dilapidato un patrimonio inestimabile e inimitabile sull’altare degli individualismi delle amministrazioni locali e dell’incapacità dei privati nel fare sistema per attirare i nuovi flussi turistici mondiali. Tra turismo e meccanica c’è un abisso nella capacità di competere.

Ugualmente corretto ricordare che gli estensori del documento scordano di dire quanto poche siano le imprese italiane che esportano e finché l’80% delle nostre imprese saranno bloccate sul mercato domestico la nostra bilancia commerciale non ci consente di risollevare PIL e crescita, la nostra competitività verso le imprese estere che in Italia hanno conquistato interi settori (come la grande distribuzione, una bella fetta dell’alimentare) rimane debole.

Per quanto riguarda il mercato domestico e ‘l’interpretazione dogmatica dell’austerity’ mi astengo, per non entrare in un dibattito sull’euro e sull’Europa Unita fin troppo inflazionato in rete (e ora politicizzato), a cui non credo di potere aggiungere alcun contributo. Ribadisco però che fino a quando il 98% percento delle nostre imprese saranno piccole, e il 60% delle piccole imprese (manifatturiere ma anche di quelle dei servizi e del commercio) opereranno su un mercato locale (nemmeno nazionale), ci sarà tanto lavoro da fare per cambiare profilo e destino della nostra economia.

Bello specchiarsi nelle imprese che esportano, ma purtroppo del tutto insufficiente. Dare le colpe di questa struttura solo alle rigide politiche europee è davvero come nascondersi dietro un dito e non aiuta a cambiare il nostro futuro. Le piccole imprese sono troppo vulnerabili e vanno aiutate a trovare una dimensione economica sostenibile anche quando non possono presentarsi sui mercati esteri.

 

Articolo di F. Bolognini – ripreso da linkerblog.biz