Forse finito il crollo dei rendimenti delle obbligazioni

Mentre prosegue incessante e fragoroso il rullo dei tamburi dei giannizzeri della deflazione, qualche bandierina si leva per avvisarci che la corsa delle obbligazioni e il crollo dei loro rendimenti potrebbe essere arrivato vicino al capolinea. Malgrado le Banche Centrali o forse proprio grazie a loro. Per chi ha ancora obbligazioni governative di durata medio-lunga in portafoglio è arrivata l’ora del “chissenefrega” e di tirare i remi in barca.

Indizio numero 1: prezzo del petrolio sale.

Secondo Tony Hayward ex ceo di BP e attuale capo della Genel Energy, compagnia petrolifera attiva nel Kurdistan iracheno, il prezzo del petrolio è destinato a tornare in breve verso gli 80 dollari al barile. Il motivo? Semplice: la decisione dell’OPEC – il cartello di maggior successo nella storia – di mantenere inalterate le quote di mercato di fronte a una domanda calante, ha centrato l’obiettivo di interrompere la crescita dello shale-oil americano, buttando fuori mercato i pozzi a produttività marginale. Ovviamente quella di Hayward è solo una previsione, forse più “informata”di altre, che non va presa come oro colato.

Se queste tendenze trovassero conferma andrebbero dapprima riviste certe sbrigative previsioni sulle inarrestabili fortune del dollaro, la cui correlazione negativa con l’oro nero sembra rimanere piuttosto stabile. Non solo: anche buona parte della recente narrativa sugli effetti negativi (deflazione) o positivi (crescita dei redditi disponibili delle famiglie) dipendente dal calo dei prezzi petroliferi andrebbe quanto meno ridimensionata. Basterebbe infatti che i valori dell’oro nero si stabilizzassero in prossimità dei livelli attuali, per vedere tra qualche mese le variazioni tendenziali sull’anno  impennarsi fino a livelli del 20-25%, con inevitabili ricadute sugli indici generali dei prezzi al consumo che potranno tornare, almeno in Europa, su livelli molto vicini se non superiori al 2%. Che fine faranno allora le attuali paranoie deflazionistiche, eccessivamente amplificate dall’andamento fin troppo volatile delle materie prime, come sempre ingigantito dalle maree dei flussi finanziari?

Indizio numero 2: andamento dei salari. Negli Stati Uniti c’è chi ipotizza che possa essere imminente un’ accelerazione salariale, fenomeno ormai dimenticato da lustri nel macrocosmo dei paesi sviluppati. Un analista di UBS (vedi grafico sopra) sostiene che c’è una relazione di tipo esponenziale tra un rapporto che vede al numeratore il numero dei disoccupati e al denominatore le nuove assunzioni e  il tasso di crescita delle retribuzioni. Quando il bacino dei senza lavoro si prosciuga rispetto alle richieste di nuove assunzioni delle imprese, la crescita dei salari tende ad accelerare. E’ quello che sta accadendo oggi nel mercato del lavoro statunitense. Una volta di più si tratta di ipotesi da verificare alla prova dei fatti, perché non è  detto che nelle correnti condizioni di “stagnazione secolare” post crisi finanziaria la relazione tra livelli di disoccupazione e crescita salariale sia rimasta stabile rispetto al passato. Rimane però un inquietante indizio da trattare con la dovuta  prudenza.

Attraversando l’Atlantico qualcosa sembra cambiare anche per la “riluttante locomotiva” tedesca: diversi contratti con ricadute a livello nazionale sono stati chiusi con aumenti salariali superiori al 3 per cento. Anche perché, come certifica l’Eurostat, delle 10 regioni in Europa con minore disoccupazione, nove sono tedesche. Inoltre i fondamentali economici del Paese sono tirati a lucido è permettono anche ai sacerdoti dell’austerità di mollare le briglie della domanda interna, accettando, con un decennio di ritardo, un parziale recupero delle retribuzioni sulla dinamica della produttività. Il Governo ha appena rivisto al rialzo la crescita nel biennio 2015-2016 all’1,8 per cento medio. La società di ricerca Oxford Economics è molto più ottimista, ipotizzando una crescita del 2,4%, trainata dai consumi delle famiglie e in parte prodotta da aumenti salariali maggiori che in passato. D’altra parte il dominus dell’Europa se lo può permettere, con un surplus delle partite correnti dei conti con l’estero che eccede il 7% del PIL e un bilancio pubblico in attivo.

Le subdole sirene che cantano le lodi dei tassi negativi

La follia dei tassi negativi riesce comunque a trovare schiere di sostenitori in aumento, sia tra gli accademici che tra i banchieri centrali, a partire dall’ex di lusso Bernanke. D’altra parte tutte le bolle trovano sempre una pletora di cantori pronte a giustificarle.

Oggi si sostiene che nelle attuali condizioni delle economie sviluppate l’equilibrio tra domanda e offerta che implica un livello di disoccupazione accettabile possa essere raggiunto  solo con tassi d’interesse reali  negativi. Se l’inflazione scivola vicino allo zero o viaggia persino al di sotto anche i tassi  nominali devono scendere ancor di più sotto lo zero, con una rincorsa che rischia di autoalimentarsi. Può darsi che tutto ciò sia logico nell’ottica di certa dottrina economica e che non esistano praticabili soluzioni alternative, anche se dubbi rimangono sulla capacità delle politiche monetarie non convenzionali di incentivare gli investimenti quando i tassi sono a zero o inferiori. Questo tipo di analisi riguarda comunque i saggi a breve termine, quelli tradizionalmente controllati dalle Banche Centrali. Il trascinamento anche di quelli a medio lungo termine sotto il livello dello zero è viceversa sicura aberrazione tecnica priva di giustificazione economica alcuna, fenomeno direttamente collegato ai flussi di acquisto garantiti con il quantitative easing dalle stesse Autorità Monetarie e alle conseguenti distorsioni di mercato.

Due indizi, mezza prova.

Materie prime e salari in aumento, sia pure anche solo temporaneamente, potrebbero innalzare le aspettative inflazionistiche e la crescita del  reddito nominale rispetto alle attese oggi prevalenti. Può darsi che tali fenomeni rimangano di scarsa portata e di natura congiunturale, a maggior ragione se l’efficacia delle politiche monetarie rimarrà modesta. Ma altri fatti non vanno sottovalutati. A partire dalle previsioni della stessa BCE, che vede l’inflazione tornare verso il livello obiettivo del due per cento nel giro di due anni. Inoltre per la Germania è comunque prevista per il prossimo biennio una crescita reale del due per cento e nominale del 3-4 per cento, in grado di trainare, almeno in parte, le economie dell’Eurozona.

Con questo quadro di riferimento o comunque con tali rischi potenziali (dal punto di vista di un creditore obbligazionario il cui scenario ideale è quello moderatamente deflazionistico),sono privi di giustificazioni fondamentali  rendimenti delle obbligazioni decennali tedesche vicini allo zero e tutta la struttura della curva dei tassi d’interesse sull’Euro. Bill Gross e tanti altri come lui pensano che, a prescindere da come si dipaneranno gli scenari futuri, sia comunque troppo pericoloso mantenere in portafoglio quelli che ancora oggi vengono considerati titoli “privi di rischio”.

Ciò che non si giustifica sotto il profilo dei fondamentali, in definitiva, non è tanto il fatto che i tassi d’interesse a breve termine siano “in ghiaccio”: il vero punto critico per il risparmiatore è che siano stati attratti verso lo zero anche i tassi sulle scadenze più lunghe che, comunque, dovrebbero mantenere un “premio al rischio” sotto forma di rendimento aggiuntivo, richiesto e giustificato dalla mera esistenza di un futuro che rimane fondamentalmente ignoto e imprevedibile, oltre che dalle caratteristiche tecniche dei titoli stessi.

Invettiva finale

Gli ultimi anni sono stati tempi d’impensabile e tremebonda fortunata follia per chi ha investito  o speculato nei recinti finanziari dell’Europa della moneta, beneficiata dalla magnanimità della tecnocrazia finanziaria. Ora, con i portafogli colmi di plusvalenze e vuoti di rendimenti futuri, è arrivata l’ora del rischio più subdolo,  del capitombolo improvviso dei prezzi al termine di un’interminabile ma felice salita. Che potrà dipendere da eventi largamente previsti e quindi controllabili, come il default della Grecia, ovvero da scenari oggi rifiutati da maggioranze che ancora si cibano della narrativa deflazionistica. Tassi negativi e alleggerimento quantitativo sono le ultime armi a disposizione degli apprendisti stregoni della moneta per rivitalizzare l’economia europea. Se Mario Draghi dovesse vincere anche la più difficile delle sfide ci saranno dei prezzi da pagare. Indovinate per chi, ricordandovi che in finanza, come nella vita, i pranzi gratis sono piuttosto rari.

Autore: E_Ascari – testo parzialmente ripreso da youinvest.org